Un'intervista a Luisa Rota Sperti, disegnatrice dell'incantesimo.
L'impatto inaspettato con Luisa Rota Sperti l'ha dato l'ultima edizione del filmfestival di Trento, materializzatosi nel lungo corridoio del primo piano del complesso del santa Chiara che fa accedere alla sala stampa. In alcune teche sta la raccolta di vari carnet di viaggio, dove si associano annotazioni e schizzi, talvolta disegni a tutta pagina. Non potevo rinviare il bisogno di dare una risposta alla scaturita curiosità di saperne di più. Mi ha sempre affascinato, infatti, la capacità di chi ha il dono (tanto da considerarlo un privilegiato) di trasferire con immediatezza sul foglio le impressioni prime, che scaturiscono dall'animo a contatto con realtà diverse. Possono essere le atmosfere che ti avvolgono in montagna, nei momenti aurei di una sosta in rifugio, può essere quanto gli occhi registrano nel corso dei tuoi peregrinari, davanti alle varie bellezze della natura, ad un documento d'arte. Il pensiero va ai carnet dell'ottocentesco Giovanni Battista Cavalcaselle, al suo coevo, ben più noto, John Ruskin. Penso alla giovane Lucy Tuckett, (il fratello è il famoso alpinista), che ci ha lasciato il delizioso diario, Zigzagando nelle Alpi, che documenta, tra l'annotato e il disegnato, il suo Grand Tour, datato 1870, un'esperienza che non poteva mancare a un rampollo (ancorché femminile) della buona borghesia britannica del suo tempo. Oggi c'è la macchina fotografica, anzi addirittura quella digitale, che non pone limiti ai clic, per cui quest'arte del carnet di viaggio vien meno, fortunatamente non del tutto, coltivata ancora dalla sensibilità di chi alla intima gioia del viaggio, del pellegrinare, del contatto non epidermico con quanto sta attorno a te abbina la capacità del segno. Penso all'amica che ha condiviso tanti comuni trekking montani, che nello zaino aveva sempre in dotazione, ben protetto, il suo carnet, cui trasferire nei momenti d'incanto quanto il cuore "dittava". Ma è bene tornare alle ragioni di questa nota. Dopo aver assaporato i deliziosi documenti protetti dalle teche, che diversamente l'istinto ti avrebbe portato a prendere in mano, a sfogliare, al fine di assaporarli pienamente, l'occhio si posa su una serie numerosa di disegni, dal piccolo al grande formato, che rivestono le pareti del corridoio. L'oggetto d'essi è la montagna, ripartita fra vari cicli: Intorno al Pelmo, My Land Tibet, Dalle cattedrali della terra ai sentieri del cielo (dedicato a Dino Buzzati), Ai confini del cielo, leggende nelle Dolomiti (Omaggio a Karl Felix Wolff). La prima curiosità si trasforma, via via, in interesse più profondo e il tempo scorre, tanto da trascurare le motivazioni che ti avevano portato all'ufficio stampa del festival. Poi, dopo i disegni, al centro del corridoio c'è il richiamo di un video che trasmette un servizio sull'autrice di queste opere. Trattasi, appunto, di Luisa Rota Sperti, una minuta signora, che vive appartata su una sponda del Lario. La signora Rota Sperti è stata ufficialmente invitata dalla direzione del festival a portare a Trento una antologia di opere sue, espressamente dedicate alla montagna, e si rende cordialmente disponibile a far da guida a chi vede particolarmente interessato ai suoi lavori. La tematica, il fascino dei disegni e di quanto essi fanno intuire inducono a "far sosta", a rinviare quanto stava nei programmi di prima mattina. Le domande premono e a poco a poco prendono il loro flusso. Dal canto suo l'autrice, la signora Luisa, non ha difficoltà a dar risposta, stante la vivacità della sua parola. C'è una dominante poetica, sognante, nella Sua calligrafica trasposizione della realtà. È quanto registro soffermandomi sui Suoi lavori.
La definizione di sogno è assai centrata, c'è una forma di utopistico sogno nel rappresentare, riordinando armonicamente gli spazi, dando a tutte le creature gli spazi giusti: così alla foglia, come al sasso, all'animale, alla persona. Tutte le creature racchiuse nel "foglio" devono beneficiare della stessa armonia; nessuno è capo, nessuno è gregario. È per me essenziale che la partecipazione a ciò che sul "foglio" è raccontato non sia mai violenta, o ad effetto, ma risulti armonica anche nei momenti di dolore (che si fa struggente malinconia...)
Lo strumento è sostanzialmente povero: delle mine, prevalentemente nere, con qualche spunto, raro, d'acquerello. Perché tale scelta?
Un mezzo povero, la matita... un mezzo umile, la carta... Quante volte mi è stata contestata questa "fragilità" di mezzi espressivi... C'è chi considera che la tela dia più sicurezza e l'olio (o l'acrilico) possano essere più durevoli, ma io ho sempre nella mente e negli occhi, lo splendore di una singola farfalla, o di un piccolo fiore; e durano così poco... C'è comunque una predisposizione al mezzo, grafico o pittorico, o piuttosto alla metodologia. In un altro contesto avrei potuto essere miniaturista in un monastero, o pittore di tanka in un altro.
Penso che molto dipenda dalla formazione tecnica. Quale è stato il Suo approccio all'arte figurativa?
Molto particolare: disegnare per raccontare, raccontarsi, creare amici segreti, pezzetti di carta con decine di faccini disegnati
sopra; ero piccolina, timida e bruttina... Disegnavo molto e se ne sarebbe accorto chiunque, anche se allora (per fortuna) non c'erano gli "specialisti" a cercar talenti tra i bambini; si disegnava anche sui muri... Poi una scuola di grafica, a Milano, con un "colorista" giapponese e un'incredibile suora partigiana che ha segnato
la mia vita.
Mi pare di capire che non ha mai interpretato la realtà con altre tecniche: l'olio, ad esempio, o stabilmente con l'acquerello...
A scuola ci hanno insegnato tutto quello che era necessario (a parte l'affresco). Ho pasticciato con l'olio e l'acquerello quando ero molto giovane, come ora pasticcio scolpendo Lune, Totem Luna, Lunele, etc, i bei pezzi di legno, su nell'orto... ma la mia "impronta" determinante è la modulazione di matite, le sinfonie di grigi, gli impalpabili passaggi tonali, dal bianco dei ghiacci al nero profondo della notte...
Ho tenuto a scriverlo sul libro dei visitatori. Se sono qui a parlare con Lei la ragione sta nel fascino dei Suoi taccuini di lavoro, che vedo come diari di viaggio, secondo quanto usavano i Suoi colleghi ottocenteschi...
Uso cose colorate per i tantissimi libretti che mai avevo portato in esposizione e che a Trento ho mostrato parzialmente, essendone comunque gelosissima, considerandoli molto privati; sui libretti a volte nascono, a volte si costruiscono i quadri, ma contengono anche moti dell'animo, intimi, rinchiusi come in scatole magiche. Li potrei paragonare agli intensi carteggi che da ragazza coltivavo... Ora sono pezzettini di cuore solitari. I più "mostrabili" sono esattamente diari di viaggi, con luoghi visitati, ... elenchi di specie arboree, ... fiori della collina. Uso anche la macchina fotografica, soprattutto quando la resa della montagna deve farne ben conoscere l'ortografia, lasciando anche intravedere le vie di salita, ma sempre di meno. Così (ritornando all'inizio della nostra conversazione) sono centinaia i Sasso Cavallo, perché è esattamente lì, e continuamente lo vedo, dall'orto e dalle stanze. Pensa che ve ne siano ancora, colleghi Suoi, che tengano a "portata di penna" tali taccuini per cogliere la prima, immediata impressione?
Viaggiando non mi è capitato spesso di vedere disegnare, se non davanti a un cavalletto a ritrarre persone o scorci urbani; vedo
disegnare bambini, mai per i sentieri. Solo una volta al rifugio Pradidali ho visto un giovanotto acquerellare su un taccuino, ma
questo non fa storia, perché noi, che si disegna così, si sta appartati... credo.
La mostra parla dei suoi cicli dolomitici. Mi par di capire che siano parte di un repertorio più ampio. Ma prima d'allargare il tema mi dica di questo pervasivo richiamo dolomitico, che traspare dalle opere esposte. Lei lombarda, e poi lombarda che ha messo radici ai piedi di cime famose... dolomitiche, per lo più.
Lombarda... è così difficile cucirmi addosso questa definizione... È vero, nella mia "produzione", che essendo calligrafica è dunque piuttosto limitata, potrei individuare oltre un centinaio di soggetti dolomitici. Ricordo bene come dagli addetti ai lavori si considerasse evidente la mia lontananza dal "naturalismo lombardo". Poi feci le "montagne di Lecco", ma in un paesaggio apocalittico, e comunque tardi per poter guadagnare l'affetto del pubblico. Voglio pensare che fosse un complimento, ma ci fu chi scrisse che disegnavo come un tedesco (al maschile oltretutto). Dunque non ritraevo il Resegone, o la Brianza, non mi confrontavo con i Promessi sposi... parlavo dell'India, del Tibet, ritraevo il Kailas, raccontavo in tavole il Pellegrino russo... Perché le Dolomiti poi, così intensamente e sistematicamente? Proverò a spiegarlo, anche se è difficile, per chi ha prediletto le immagini, illustrare un percorso spirituale con le parole.
E a proposito di cicli mi dica di quello titolato Intorno al Pelmo. Perché questa attrazione verso Il trono di Dio?
Io ho a volte il sospetto d'aver fatto tutto al contrario. Mi spiego: le esperienze che arricchiscono, nell'età adulta forse meglio si vivono e se ne gusta l'essenza; io le ho vissute da giovanissima. Ero una bimba infelice e una adolescente tormentata, senza alcuna colpa a papà e mamma, la cui unione è una storia del mondo contadino e dell'alta borghesia della prima metà del novecento... Dalla terra e dai libri è nato quello che sono. Odiavo le automobili, come adesso, ma verso oriente si andava con questo mezzo. I miei ricordi di "piccola viaggiatrice" li ho lasciati sepolti sui fogli, nelle mille allusioni: lunghe barbe, e turbanti e gilet ricamati e danze nella luce colma del pulviscolo della sera: Herat... Kandahar... Kabul, e poi Taxila e Benares, e Kathmandu... e poi per tutta Europa, spaziando fino alle porte dell'Africa...; a segnare in maniera determinante la mia vita, i miei disegni, è stato quel mio primo viaggio, nel 1969, Italia-India, con una colomba della pace sullo sportello dell'auto e una carica di innocenza commovente... fin laggiù, fino alle sacre sponde del Gang, fino a quel sapore di morti mai assaggiato prima, fino a quella consapevolezza che forse là era meglio, che forse fossero quell'acqua, o le sabbie del deserto a celare un dio, che forse solo laggiù si potesse trovare. E poi il Tibet, e poi lo Zen, e poi i Padri del deserto, fino al Pelmo. Non è facile spiegare un momento di consapevolezza, ma il primo giro d'autunno, su sentieri solitari, lontana dall'asfalto, intorno al Pelmo, ha saputo darmi quella quiete, quell'accettazione; nel guardare con tenerezza l'albero, quasi percependo che la sua fine e la mia fine fossero la stessa cosa, e che andasse bene così, senza alcun dolore per l'essenza di quella fede che è un dono e come tale può essere negato. La gioia del bosco, del sentiero tra i monti, della pietraia ai confini del cielo ha placato l'ansia antica, non c'era più necessità d'andare lontano, le sorgenti erano sotto i miei piedi, sulla collina, nel bosco vicino, nel piccolo fiore... e dall'amato Pelmo poi a tutti gli altri monti si è rivolto l'incanto "riconoscente". "Pino, la Morte e il Pelmo" è un ciclo chiaramente didattico, dove ogni quadro, sono ben undici, ha un tema: L'uomo di legno, Mamma marmotta, Mamma scoiattolo, Carégon du Diau... È così?
Pino, la Morte e il Pelmo è venuto dopo il ciclo Intorno al Pelmo. La particolarità di Pino, la Morte e il Pelmo è che la storia scritta è nata dalle tavole disegnate; è un cammino di crescita di un "bimbo magico" molto legato alla mia partecipazione operativa nell'Unità di psichiatria, in veste di coordinatore artistico di laboratorio, in
C.R.T., C.P.S.. ora in Reparto e comunità protetta. A lungo abbiamo lavorato sulla fiaba; Pino è metafora della deambulazione del pellegrino, metafora di un percorso interiore.
Questo ciclo è da considerare dunque una proposta, perché in particolare le famiglie giovani possano far pedagogia itinerante,
così che sui sentieri e nell'intimità dei rifugi, ci sia colloquio tra genitori e figlioletti, curiosi di sapere, delle cime, della natura...
Trovo molto indicata la definizione di "pedagogia itinerante" rispetto alle fruizioni dei giovanissimi del percorso "Camminarte", creato con le undici tavole del ciclo, toccando i rifugi della Val Fiorentina, della Val Zoldana e dell'Ampezzano. Determinante poi è stata l'accoglienza dei gestori dei rifugi.
C'è anche il ciclo My Land Tibet. Sono opere nate da una diretta esperienza con questa terra, al centro di una pesante attualità?
My Land Tibet è un'antologica, che contiene trent'anni di opere, che con l'immediatezza della raffigurazione (i vari Kailas), o celati tra le pieghe del foglio, riportano a questa tematica che per tanti anni mi ha accompagnato: dalla "Tibet house" di Dehli, ai campi profughi in Nepal, fino all'attualità, in un modularsi di "orrori sul campo", che hanno avuto pochissimo riscontro nei media. Io non so perché ho un pezzettino di cuore lassù e una biblioteca di 150 volumi che trattano del Tibet, e neppure me lo chiedo...
E poi ancora l'omaggio a Dino Buzzati. Cosa L'affascina di questo scrittore, così unico?
I piccoli disegni, anzi dovrei dire i disegni per i piccoli. Prima dei suoi libri ho amato le sue "lettere disegnate", il suo fumetto... gli ex voto, quel suo rapporto, a volte quasi tenero, con la morte, che per un "non credente" è molto... Nel ciclo Dalle cattedrali della terra (i monti) a I sentieri del cielo (la morte) solo lui poteva prendermi per mano. L'ho amato tantissimo, se ne parlava appena
ai miei tempi "scolastici"... ed io trovavo la sua vita e le sue "espressioni" così totalmente e perfettamente umane da rappresentare
quel "divino" che il saluto nepalese celebra...
Non Le pare però ci sia un netto stacco tra la Sua poetica, che cesella con garbo, pacatezza e serenità quanto Lei registra con gli occhi dell'anima (Mi consenta citare Saint Exupery) e la complessa pittura del Bellunese?
Proprio il fatto che la mia impronta espressiva sia così composta di piccoli segni, (che fondendosi creano gli elementi e lì nascono e lì si annullano); proprio il fatto che, osservando bene, sono scarsi i primi piani e spesso non esistono le ombre, colloca il mio lavoro in un settore artistico atemporale, secondo il quale il concetto di paesaggio può essere usato nel caso di una superficiale osservazione. Trovo il richiamo alla poetica di Saint Exupery decisamente calzante.
C'è poi l'omaggio a Karl Felix Wolff che ha dato voce con i suoi libri alla magia delle saghe dolomitiche...
L'incontro con Wolff risale a tempi remoti ma l'intima conoscenza è freschissima. Che cosa mi ha appassionato di lui? La dedizione
assoluta, quel suo pellegrinaggio fra monti e malghe a raccogliere parole, a fermare il disperdersi nel tempo di queste leggende, di cui s'era certo innamorato. Solo da una grande passione può scaturire una tale dedizione. Ha aggiunto qualcosa di "suo" (molto bene), è una forma d'arricchimento artistico, poetico, in più; è una caratteristica dei "raccontatori"...
Lei mi sembrerebbe portata ad essere illustratrice di testi di favolistica, di racconti... È punto che possiamo affrontare?
Ora reagisco in maniera più pacata alla definizione di "illustratrice", nei taccuini c'è qualcosa di simile; nei quadri no. Io ho raccontato tantissimo sui fogli, ma sempre concepiti come quadri, cioè manufatti da osservare sul posto, lì davanti, e così sono strutturati; nel riprodurli buona parte scompare. Il brulichio di segni che crea il grande corpo dell'opera è concepito per essere osservato da vicino; al contrario rispetto ai divisionisti la mia opera allontanandosi scompare, diviene "una liscia parete i cui appigli si rivelano solo nell'avvicinarsi" (A.Benini). Ciò li ha resi sempre un po' problematici rispetto all'arredamento... e una disperazione per fotografi e stampatori... Ma, come pensavo da piccolina (mettendomi nei guai, spesso, ed ho continuato), l'esperienza è da finire lì, sul posto, qualunque riproduzione, qualunque "copia" è una cosa "altra"... non vorrei apparire presuntuosa, non è un concetto artistico, ma direi affettivo. Ogni opera è unica nel suo carattere e nelle passioni racchiuse; unica come ogni creatura che respira, o cresce come albero, o rotola come sasso...
Vedo in lei una capacità di lavoro notevole. Sembra però che i suoi disegni sgorghino dal filo continuo del cuore, senza ripensamenti. È giusta questa considerazione?
Una volta era così, ero molto rigorosa, serena, nemmeno usavo la gomma; ora sono invecchiata e su queste cose sono più calma, mi piace l'errore, lo sento così "tenero", umano, ho quasi preso gusto a cancellare pezzettini: saper mettere-saper togliere, il riguardarsi dentro è importante, nello scomparire dei piccoli compiacimenti la dimensione ritorna più naturale.
Altra domanda per stare in ambito privato. La potenzialità che esprime nasce da un bisogno espressivo... in una parola è hobby d'elevatissima qualità oppure è anche specifico campo professionale?
Io opero in psichiatria; da quasi vent'anni disegno e dipingo con pazienti (a progetti naturalmente). I miei disegni sono stati un'autocura, molto personale perché senza colore, (ed il colore fa bene). Senza questo luogo del cuore segreto (i fogli) in cui rifugiarsi (non scappare) avrei avuto grosse difficoltà a sopravvivere ad una vita molto complessa, non infelice,no; anzi ricca di esperienze che hanno costruito la mia poetica, vissuta giorno per giorno con problemi da affrontare da sola e responsabilità verso un figlio; un foglio era spesso il "giardino segreto" in cui riposare. Fin dal rivelarsi del mio "talento" l'ho considerato il mio lavoro, anche se per poterlo fare in autonomia ho dovuto farne parecchi altri (alcuni decisamente strani) per poter ricavare il tempo necessario alla lunghissima realizzazione di un'opera. Ho iniziato ad esporre poco più che ventenne, per alcuni anni sono stata "artista di galleria" di un ottimo gallerista di Milano. Se la domanda è rivolta a sapere se si può vivere tranquillamente con questa modalità di lavoro per ora rispondo di no. Inizio ora a raccogliere qualche soddisfazione piena nel fare quasi esclusivamente ciò che amo: disegnare molto, al mio tavolo da disegno, o sulla collina, o con i pazienti del reparto... Riscontri economici non ne ho avuti molti ma sono proporzionali al mio stile di vita piuttosto sobrio; un tempo per necessità, ora per scelta. Non ho mai posseduto un'auto, una casa, dei beni, ma ora che ci penso non mi è mancato niente, e neanche a mio figlio; è un controsenso? Come ho accennato sono da una ventina d'anni operatore artistico nell'unità psichiatrica di Lecco. È stato anche un lavoro alternato a periodi di volontariato... ma ho fatto anche il giardiniere, il decoratore nei cimiteri, ho fatto vetrate e battuto il rame, come ora scolpisco il legno (pasticcio col legno per mio piacere)...
Oltre ai cicli dolomitici, già richiamati, ne ha prodotti altri? Credo sia così, a quanto ho letto.
Tutto il mio percorso artistico è stato caratterizzato da cicli; all'inizio, in epoca giovanile più confusi e frutto di feroci emozioni (la beat generation, la musica, l'oriente) poi sempre più strutturati (Il Signore degli anelli) e rigorosamente composti (Francesco e gli Uccelli e il Buddhacarita).
Da cosa nasce in Lei l'esigenza di esprimersi per cicli?
Perché i cicli? Il singolo "quadro" mi pareva forse troppo piccolo, quasi povero, troppo "stretto" per contenere tutto quello
che sentivo quasi contorcersi dentro. La necessità di approfondire si rivelava quasi ossessiva, come l'accavallarsi e l'intrecciarsi
dei "segni". Già sulla singola tavola, e precisamente sul San Francesco i segni occupano interamente, totalmente lo spazio e vanno oltre, esigono altri fogli, quasi a creare "Pale d'altare", quasi a voler elevare ogni tematica ad "altezze" spirituali; dunque numerosi i trittici, poi i polittici, poi i cicli, a volte composti da dittici, trittici, polittici... So di essere assai complessa, come le
mie opere, e la strada verso il totale armonizzarsi di questi segni è stata lunga, e continua ancora...
Ho visto in catalogo una Sua foto, in veste d'escursionista classica. Sullo sfondo uno scorcio montano. Una pura casualità oppure un legame stretto con i monti?
Come ho accennato il legame con i monti è ora essenziale; certo li ho scoperti tardi rispetto ad altre esperienze (quel furioso
viaggiare), ma io penso che gli amori della maturità siano più profondi, e così è stato. La maggior parte dei monti ritratti nelle
mie tavole sono stati goduti dai miei occhi e dai miei piedi. "Camminarte" è stata per me la massima soddisfazione dei miei desideri: donare il Pelmo al Pelmo, entrare in quella piccola silenziosa leggenda che sono le pareti dei rifugi... ogni volta assaporate, angolo per angolo, ricordo per ricordo: piccole voci, infiniti silenzi, presenze...
Vedo riportata nel magico depliant d'invito alla mostra, sotto il grande disegno della Civetta, ritratta nel suo sviluppo dalla Torre
Coldai alla Torre Venezia, una citazione da Reinhard Karl, assai bella. La richiamo: Ascoltando dentro di me, spesso non ho sentito altro che il silenzio dei monti. Come è arrivata a Reinhard Karl, che oltre ad essere stato un grande, tra gli alpinisti contemporanei, con i suoi scritti ci ha lasciato un patrimonio di forte interiorità?
Reinhard Karl è stato un libro donato ad uno che arrampicava e poi arrivato qui, nelle mie mani, al momento giusto. Pochi anni fa ho iniziato un lavoro importante, una saga delle mie valli sospesa tra realtà e leggenda... Io ho sempre amato le citazioni, come il passarsi un dono prezioso, da chi non c'è più... Io avevo camminato tanto, cambiato storie e case, ed ora ero qui, davanti a queste montagne e sentivo che quest'ultima sarebbe stata la "casa"; come arrivare ad un luogo un po' sacro dopo un lungo cammino o all'ovile per riposare
la sera... Cercavo qualche cosa che sintetizzasse il mio sentire (io non so sintetizzare e lo si vede dalle opere) qualcosa che interpretasse l'atto magico (o mistico) della resa, dell'abbandono, ma che fosse un abbandonarsi senza rimpianti, né melanconie, che fosse comunque alla fine la quiete, l'ovile appunto, naturale, semplice: i monti, io, tu, il fiore, siamo lo stesso respiro; e va bene così.
Grazie, per aver accolto l'invito a colloquiare. Ci accompagnino sempre, sulle strade ordinarie della vita, le parole di Reinhard
Karl, quale viatico per il nostro restante cammino